Quando vicende politiche di assoluto valore strategico come sono quelle europee si piegano alle logiche nazionali e la cronaca regala all’opinione pubblica scene come il battibecco Monti-Renzi o la (finta) rappacificazione Juncker-Renzi, allora è venuto il momento di fare un passo indietro e rivedere il film dall’inizio.
Nella fase in cui nasce l’unificazione monetaria europea, sorge nei nostri partner l’idea che il debito pubblico italiano rappresenti il pericolo da cui guardarsi. Difficile essere contrari per questa diffidenza: nel 1990 il nostro fardello era pari al pil e solo quattro anni più tardi era salito al 124%, con interessi passivi tripli rispetto a quelli medi nell’area euro. Un quarto di secolo dopo, il debito è arrivato al 133% del pil e in valore assoluto (2170 miliardi) rappresenta un quinto di quello complessivo dei paesi euro. E questo nonostante i tassi siano crollati.
Inquadrato storicamente il “problema Italia”, due anni fa, quando Renzi sfratta Letta da palazzo Chigi e apre una stagione politica nuova. Accompagnato dal ministro Padoan, il presidente del Consiglio va a Bruxelles e Berlino e negozia uno scambio politico così concepito: voi concedetemi la possibilità, che non avete dato ai miei predecessori, di agire anche sul denominatore del rapporto debito-pil, e io realizzo quelle riforme strutturali che nessuno prima è riuscito a fare. La scommessa era che si sarebbe potuto conseguire una riduzione, seppur lenta, dello stock di debito. L’Europa ci concede la flessibilità richiesta, e, di conseguenza, in quella circostanza Renzi non si sogna neppure lontanamente di contestare la Ue e la Germania, e di sostenere che le regole europee debbano cambiare. Anzi, nel frattempo ne ingoia altre, senza proferire parola, decisamente a nostro danno. A due anni da quella data, il risultato è il seguente: la politica monetaria impedisce alla deflazione di fare disastri, ma non riesce a riaccendere quel fuocherello inflattivo che tanto servirebbe ai conti pubblici italici; la crescita è praticamente pari a zero nel biennio renziano (-0,4% nel 2014 e +0,6% nel 2015) anche perché i maggiori margini di spesa sono stati usati per alimentare i consumi invece che per incentivare gli investimenti; le riforme come quella sul mercato del lavoro, hanno effetti limitati e nel medio termine, oppure sono rimaste sulla carta (pubblica amministrazione e giustizia), oppure ancora sono da buttare (quelle istituzionali e la legge elettorale).
È dunque dentro questa cornice storica che va iscritto l’attuale contenzioso europeo. Per capirlo basta questa semplice riflessione: come si fa a chiedere flessibilità in nome della crescita e poi spendersi il tesoretto mettendo un po’ di soldi in tasca agli italiani (ma sarebbe meglio dire agli elettori) nella presunzione che diventino consumi in misura tale da fare da volano alla crescita economica?
Pensate che gli altri leader europei, che si devono guadagnare il consenso non meno di Renzi, siano disposti a tollerare la paghetta ai diciottenni e cose simili?
Ora, però, la cagnara ha lasciato il posto al dialogo. Padoan ha redatto e consegnato un ambizioso documento strategico sull’Europa, ma non ci sono indicazioni per una reale revisione del fiscal compact e l’indicazione a favore di euro bond è troppo generica per essere considerata una proposta operativa. Anche il supporto all’idea di un ministro delle Finanze comune ci pare, in assenza di una politica fiscale comune, un boomerang, perché finisce con l'allontanare anziché avvicinare la vera cessione di sovranità necessaria per edificare gli Stati Uniti d’Europa.
Non è un caso, d’altra parte, che nel corso della visita di Juncker a Roma il presidente della Commissione abbia sentito il bisogno di sottolineare che Bruxelles “non è un raggruppamento di tecnocrati e burocrati a favore di un’austerità sciocca”. Come a dire che è Roma a fare la pace con Bruxelles, e non viceversa. Il che fa pensare che i conti andranno regolati. Forse non quest’anno, ma certo non oltre il 2017. E se l’economia italiana continua nel trend dell’ultimo trimestre 2015, saranno dolori.
Addì, 29 febbraio 2016
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