Di fronte a una catastrofe che provoca centinaia di morti e feriti, non c’è niente di peggio della retorica buonista.
Persino il repentino gesto di riporre le armi della polemica politica stona, perché un conto è che il “teniamoci stretti, stiamo uniti” venga pronunciato da chi, come il Capo dello Stato, è custode dell’unità del Paese, un altro è che ne faccia uso chi sulla delegittimazione degli avversari ci ha sempre campato.
Anche in questa drammatica occasione non è mancato nulla di tutto questo. Sì, è vero, Renzi non ha esagerato per come è fatto. Ma non basta. Sono troppi e troppo brucianti i precedenti di impegni presi e non mantenuti per non provare scetticismo verso “l’Italia è ripartita” al punto che qualcuno comincia a pensare che porti pure rogna, oltre che gridare vendetta al cospetto della “crescita zero”.
Ora contano i fatti e le decisioni da prendere per il futuro delle zone terremotate.
Il precedente dell’Aquila è lì che grida ancora vendetta: dopo sette lunghi anni, i soldi spesi, a parte i 4 miliardi usati inizialmente per i soccorsi, non arrivano ad un terzo di quelli stanziati (6,9 miliardi su oltre 21).
Dunque, le cose da fare subito sono almeno quattro finalizzate alla fase emergenziale.
La prima: stanziare le risorse immediate e future, e porre in sede Ue la loro deducibilità dal conteggio del deficit.
La seconda: concentrare le risorse in un unico soggetto spenditore.
La terza: decidere, senza tentennamenti, quale piano di ricostruzione attuare.
La quarta: rimuovere tutti i vincoli burocratici alla spesa.
Oltre bisogna adottare subito le norme per introdurre l’assicurazione obbligatoria sugli edifici, privati e pubblici. L’Italia è un territorio ad alto rischio, eppure è uno dei pochi paesi dove a “coprire” è solo lo Stato: a pagare i costi è sempre e solo il Tesoro e quindi i contribuenti, sotto forma di tasse o a carico del debito pubblico. Infine, stilare un piano straordinario per la messa in sicurezza sismica degli edifici nelle zone a più alto rischio.
Dunque, niente manfrine.
Renzi, che credeva di dover misurare se stesso e il suo governo sulle riforme costituzionali, ha da poco capito che invece gli italiani lo giudicano dai risultati ottenuti in economia, ora è di fronte a un nuovo metro di misura che rappresenta nello stesso tempo una grande opportunità e un grave pericolo.
Se riuscirà a fare in centro Italia quello che nel 1976 fu fatto in Friuli Venezia Giulia, avrà colto l’opportunità capace persino di far dimenticare la crescita zero e le palle raccontate sulla grande ripresa. Se invece ripeterà il copione dei film già visti, non gli sarà perdonato nulla. Ma proprio nulla.
Addì, 27 agosto 2016
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