Allo stato attuale la risposta non c’è! Ma una cosa è comunque chiara: le strade del presidente del Consiglio e del Pd prima o poi sono destinate a separarsi. Per di più i partiti di oggi sono allo stato gassoso, una situazione che preclude il nascere di qualsiasi idea per far uscire dalle secche il Paese che è ancora fermo, con il divario Nord-Sud che si fa enorme e la disoccupazione che torna a salire. Basta guardarsi intorno per vedere che moltissime partite Iva sono evaporate, il piccolo commercio si sta esaurendo, le poche grandi realtà industriali guardano sempre più all’estero e l’export non è sufficiente per cambiare le sorti del nostro sempre più povero capitalismo.
In questo quadro l’unica medicina utile, sul piano pratico è imprimere una svolta all’andamento dell’economia. Renzi l’ha capito, e non è un caso che nel momento più difficile della sua scommessa politica ha tirato fuori l’idea di un taglio significativo delle tasse. Un piano pensato e presentato come una sfida alla destra del “meno tasse per tutti” che non ha saputo realizzare quel sogno e alla sinistra che ne è ideologicamente contraria. Tutto ciò, frutto di una politica di comunicazione che ha come presupposto far dimenticare l’esistenza del Pd e arrivare alle elezioni politiche, anticipate o a scadenza naturale che sia, avendo delineato il Pdr (Partito di Renzi) in un crescendo di promesse di cambiamenti radicali. Progetto politico comprensibile ma che rischia d’infrangersi contro una complessità che è molto più grande e articolata di quanto Renzi non immagini. Cogliere il punto della questione fiscale come chiave elettorale (come fu per gli 80 euro) è sì corretto dal punto di vista politico, ma potrebbe non esserlo sul piano sostanziale. Una cosa simile andava fatta subito, come primo passo del governo e andava sostanziata, come andrebbe anche ora, sia da un preventivo piano di riduzione e trasformazione della spesa pubblica, sia da un piano di messa a reddito del patrimonio pubblico.
Comunque, meglio tardi che mai. Ma quel piano fiscale non è lo shock che serve e che gli italiani stanchi di un ventennio inconcludente si aspettano. Non produrrà un flusso d’investimenti tale da configurare una netta inversione di tendenza, così come non spingerà più di tanto i consumi interni, che ormai si sono assestati su stili di vita molti diversi da quelli di quando eravamo ben oltre le nostre possibilità. E dunque, non servirà ad accrescere il pil in misura tale da poter accorciare le distanze nella crescita con gli altri paesi dell'euro club. Ciò induce a pensare alcuni fattori:
la progressività della manovra, che inevitabilmente perde d’impatto.
l’assoluta genericità delle indicazioni sulla copertura della manovra da 50 miliardi che presuppone un piano d’intervento compensativo sul debito che non c’è.
la non focalizzazione degli obiettivi. Non si può passare dalla prima casa al carico fiscale sulle imprese e tanto altro, proprio perché non c’è spazio per una manovra a 360 gradi.
l’esperienza. Di queste manovre ne sono state annunciate un’infinità, ma se nessuna è andata in porto vuol dire che un motivo ci sarà.
Sia chiaro, un forte shock fiscale è senz'altro positivo e Renzi ha fatto bene a lavorarci. La pressione fiscale è troppo alta, scoraggia non solo gli imprenditori ma qualunque azione d'investimento produttivo. Intervenire è indispensabile. Ma è quel poco che c’è sul tavolo a spaventare. Se si propone un patto agli italiani, come ha fatto Renzi, non si può non dire loro che la prossima legge di stabilità dovrà necessariamente partire dai 29 miliardi in più di entrate tributarie previste a legislazione vigente nel Def, con le clausole di salvaguardia pronte a scattare se non si procede a tagli di spesa di tale importo.
C'è da sperare solo che qualche giorno al mare o in montagna, porti un po’ di saggezza.
Addì, 01 agosto 2015